Giorgio Melzi
Milàn e poeu pu (c’è ancora molto, in realtà).
Nato a Milano il primo marzo 1944, Giorgio Melzi cresce insieme alla sua città, coltivando fin dall’infanzia gli stessi aneliti di libertà, sperimentazione, riscatto. Sui forti valori ricevuti da una famiglia che vanta due cognomi illustri, Manzoni e Melzi, sull’insegna della modesta bottega da idraulico, Giorgio innesta il percorso di ricerca di una vita: l’amore per il colore. Si scopre pittore pitturato. Fisicamente. Da bambino il suo primo incontro coi pigmenti è tattile, concreto, impiastricciato. Vive a ridosso di un colorificio, niente di artistico, una fabbrica. Abbandona amici, giochi e bicicletta per scavalcarne il cancello e immergersi, pennello da dieci (anni) nei blu, nei rossi. S’innamora. E da buon innamorato, assorbe.
Non smetterà più. Dagli insegnamenti appresi nella Brera dell’Accademia delle Belle Arti, come studente, e del bar Giamaica e di Tittailtabaccaio (tutt’attaccato), come sodale a condividere un bianchino e le previsioni del tempo e della vita con Bruno Cassinari, Roberto Crippa, Franco Rognoni, Piero Manzoni, Kodra, Remo Brindisi, Ernesto Treccani, fino alle atmosfere suburbane in cui vive – “un campo di rifiuti, fiori rinsecchiti, frutta che non matura più sugli alberi”, annota in taccuino del tempo – assorbe oggetti, motivazioni e colori e li riversa nei suoi primi quadri.
Porta i temi della pittura di Mario Sironi, nel cui solco muove i primi passi, nel vedersela con le “periferie urbane”, i “fiori vissuti”, le nature morte di frutta che straripa da sacchetti di carta, la luce reale della città. Dal 1967 espone nelle maggiori gallerie italiane, Galleria Bramante di Milano; il Camino di Bari, 1969; Volpi Arte Parma, 1970; Club 17 e Studio7 di Milano, 1973; Galleria Tedeschi di Lugano e Zecchillo Galleria d’Essai di Milano, 1974; Fenati Milano, 1974 e si afferma come esponente di spicco della sua generazione. Lo studio in Via Marco Polo 7 diventa indirizzo ricercato da collezionisti, critici, pubblico.
Ma la città cresce, Milano è “vicina all’Europa” e ormai lambisce Parigi. Melzi vi si trasferisce, apre uno studio anche a Montmartre e inaugura una personale nella Galerie Mouffe, nel ’74. In anticipo su quella che sarà la scena meneghina degli anni ’80, inizia a spaziare oltre i confini geografici e tematici della città e della pittura. Esplora il mondo della comunicazione, elabora scenografie teatrali e televisive, frequenta architetti e scenografi del calibro di Palmieri, crea l’immagine di un farmaco Astrazeneca. E da acclamato artista internazionale, torna nella sua amata Brera, per l’insegnamento agli allievi del corso di pittura alla Bottega degli Artisti di Milano.
E quando Milano scopre definitivamente la sua vocazione cosmopolita, Melzi è già nel mondo ad aprire studi, allestire mostre, arricchirsi di nuovi stimoli. Avanguardia meneghina nelle isole del Mediterraneo, a Shanghai, in Germania, in Africa, alla corte dei nobili Masai. Per mesi cieli azzurri, spiagge, sole, calore invadono le sue tele. Per anni i guerrieri masai popolano i suoi quadri.
Poi, d’un tratto, cambia pagina, perché è “un artista dagli innamoramenti facili”. Alla fine dell’anno 2000 – personale “Masai” organizzata dall’Assessorato della Cultura del Comune di Cesano Maderno al Palazzo dei Borromeo – con grande autoironia si raffigura circondato dalle figure che tanto lo hanno fatto conoscere ed apprezzare. Sul retro il titolo: “prigioniero di un sogno”.
Il mercato segue la domanda, Giorgio no. Impossibile tornare indietro. I fiori vissuti, le periferie urbane non rivivranno più, e lo stesso vale per i guerrieri in rosso. Melzi è incapace di ritrovare in sé la pur semplice volontà di ripeterli. Esaurito il colore dell’anima che essi rappresentavano, cambia pennello.
Sembra una cesura, invece è il proseguire di un percorso, della ricerca di una vita. Della carica emotiva che prima di tutto e di tutti “dipinge” lo stesso Melzi, oggetto, qui, non soggetto, e poi si spande sulla tela.
Muore il 5 febbraio 2020, in una Milano ormai diventata grande. Eppure ancora attaccata alle cose semplici. Non rinuncia al legame con la terra, alla gratitudine per la genuinità della vita, ai frutti del suo orto, alla bellezza inconsapevole, al potere dell’arte che accompagna, che sconvolge, che fa dire non sono più la stessa persona.
Inizia a somigliare al Melzi, Milano.
Ora che non c’è più (c’è ancora molto, in realtà).
copyright © A. Meneghetti